SPECIALE CALCIOPOLI: la logica del tribunale riguardo alle frodi sportive /1, “tutti colpevoli”

Continuiamo la nostra miniserie di articoli dedicati alla sentenza di primo grado di Calciopoli con particolare riferimento alle condanne subite dall’ex direttore generale della Juventus, Luciano Moggi.

Dopo aver completato il percorso relativo all’analisi delle nove frodi sportive e l’accusa di associazione per delinquere, passiamo ora a considerazioni di carattere generale sulla sentenza e alcune logiche in essa contenute. Iniziamo dal tentativo di contestualizzazione.

Ai fini della assoluzione dalle accuse di frode sportiva a poco è valso il tentativo delle difese di contestualizzare l’ambiente del calcio, anche se il tribunale lo ritiene sostanzialmente riuscito. Infatti, esso “stima di poter affermare che (...) è provato dalle reiterate trascrizioni in atti, (...) l’esistenza di un quadro sociale delle condotte indicativo di una generalizzata tendenza a conquistare il rapporto amichevole, in funzione del suggerimento, con designatori e arbitri” (pag. 85, nelle motivazioni della sentenza). I giudici, insomma, riconoscono che “così facevan tutti”, che cioè tutti cercavano in qualche modo di rapportarsi con l’ambiente arbitrale per “suggerire” evidentemente situazioni che potessero in qualche modo tornare utili agli interlocutori stessi. Questo però “non è di per sé idoneo, ad avviso del collegio, a precludere in radice il giudizio sui reati di tentativo contestati agli imputati, in particolare a Moggi, se viene dimostrato che per la sua parte questi ha tenuto comportamento diretto a invadere il campo della discrezionalità tecnica di designatori e arbitri, e a introdursi surrettiziamente, forte della indiscussa competenza nella materia del calcio, nell’area dell’arbitraggio, con esercizio, quindi, di potere che, nella visione del tribunale, può pur sempre essere considerato non indifferente alla contestazione di frode sportiva, poiché come già detto, la legge prevede il risultato diverso, non immancabilmente il risultato a favore o sfavore di questo o di quel particolare partecipante alla competizione sportiva, con la conseguenza che la contestazione, pur se certo esce fortemente ridimensionata dal dibattimento, sembra poter ad esso sopravvivere, senza volgere nel fatto diverso, non penalmente valutabile” (pag. 85).

In pratica, il tribunale ravvisa in questi comportamenti “istituzionalizzati” di tutto l'ambiente sportivo nei confronti del mondo arbitrale gli estremi per poter configurare la frode sportiva. Non importa, quindi, ai fini della valutazione specifica della posizione di Moggi, se altri abbiano avuto lo stesso comportamento accertato e testimoniato dalle tante telefonate mancanti nelle prime fasi dei processi mediatici, sportivi e penali e ritrovate grazie alla persistenza dell'ex direttore bianconero, vincitore di 15 trofei (escludiamo dal conto la Coppa Intertoto) con la squadra torinese. Una miriade di conversazioni, dunque, trascurate o occultate che fossero che, per motivi che sfuggono alla comprensione, non hanno trovato la strada dell’accusa e del processo per le persone coinvolte in quelle chiacchierate. Nonostante fossero lì, pronte per essere raccolte dagli inquirenti.

Che sia pacifico che questo quadro “istituzionale” sia ormai assodato lo dimostra il fatto che i giudici abbiano rigettato le ulteriori telefonate scoperte all’ultimo minuto dal collegio difensivo di Moggi, spiegando che “non altro potrebbero dimostrare queste ulteriori trascrizioni, se non quello che già è provato dalle reiterate trascrizioni in atti” (pag. 85), ovvero proprio quel “quadro sociale” di cui si parlava prima.

Se è vero che questo enorme ed encomiabile lavoro di contestualizzazione portato avanti da Moggi e dai suoi avvocati non ha raccolto i frutti sperati in sede di processo penale e sportivo, tuttavia è vero anche che dal punto di vista del dibattito da “bar sport” esso ha finalmente dato il quadro reale in cui operavano i dirigenti juventini, permettendo di riscrivere la storia del calcio nostrano, almeno dal punto di vista sostanziale. Prova ne è che la Juventus di Andrea Agnelli conta nel suo palmarès proprio i 31 scudetti vinti sul campo e non i 29 dell’albo d’oro che la Federazione attualmente le riconosce, con tutte le conseguenze di proteste e ricorsi che ciò ha generato da parte della squadra piemontese. E così anche molte discussioni tra tifosi che prima vedevano gli juventini in posizione di debolezza si sono improvvisamente ribaltate. È difatti oramai difficilmente negabile, a meno di volersi spingere oltre la soglia della faziosità, che i comportamenti di Moggi fossero eticamente discutibili al pari di tutti quelli, e in diversi casi anche molto meno, di alcuni suoi colleghi.

Nella realtà dei fatti però, ad oggi, Moggi (assieme alla sua Juventus e a qualche malcapitato) rimane il solo ad aver pagato un prezzo carissimo a questo sentimento popolare anti-juventino. La decisione dei giudici penali rispecchia sostanzialmente quella già presa in sede di processo sportivo. Anche lì il collegio si dimostrò estremamente intransigente. E anche lì soltanto alcuni, per loro sfortuna, vennero accusati e condannati nel 2006, mentre invece altri potenziali colpevoli la fecero franca già in sede di indagini e accusa, non comparendovi neppure: anzi, in quel periodo passarono per quelli “onesti”, tanto che venne assegnato loro addirittura il famoso “scudetto di cartone”.

In quell’ambito, il lavoro del pool di Moggi costrinse poi la Federazione a ritornare successivamente ad occuparsi nuovamente di Calciopoli, con il compito di valutare le condanne del 2006 in relazione ai nuovi fatti emersi. Basti ricordare la famosa relazione del superprocuratore sportivo Palazzi del 2 luglio 2011: in essa incolpava l’Inter e il suo dirigente di allora, Giacinto Facchetti, di illecito sportivo, ma allo stesso tempo proponeva l’archiviazione per sopraggiunta prescrizione.

Abbiamo dunque visto che le condanne per frode sportiva seguono la logica del tutti colpevoli. Una logica supportata dalla genericità e dall’ampio spettro astratto con cui la legge permette di applicare il reato di tentativo a sostanzialmente qualsiasi azione, cosa che del resto vale anche per l’illecito sportivo in ambito sportivo. Una logica per la quale in questa sentenza la soglia dell’intransigenza è stata opportunamente posta ad un livello talmente basso da far rientrare nella fattispecie criminosa alcuni comportamenti che in quegli anni tutti i dirigenti hanno tenuto nei confronti degli arbitri. Nelle precedenti puntate di questo speciale abbiamo visto che quel livello è assolutamente insostenibile al test del comune buon senso: non ci sono partite alterate, non c’è trasmissione del messaggio delinquenziale agli attori in campo, se non in casi isolati non coinvolgenti Luciano Moggi né la Juventus; non c’è nemmeno l’alterazione dei sorteggi. Ci sono invece soltanto discussioni, critiche, generiche richieste di protezione dagli errori arbitrali, confronti, politica sportiva e così via, in una fase, ovvero la formazione di “griglie arbitrali” per lo più scontate e vincolate dalle tante preclusioni, molto molto lontana dal momento stesso in cui si decide “il leale e corretto svolgimento” della gara; talmente lontana da essere definita dai giudici stessi addirittura “marginale” all’interno delle motivazioni del capo Q e “remota” nel capo F.

Sia chiaro che non stiamo avvalorando la tesi del “tutti colpevoli, quindi tutti innocenti”, bensì che, a nostro avviso, il “tutti colpevoli” non è sostenibile. Oltre a ciò, molto probabilmente i tribunali penali e sportivi hanno potuto utilizzare questa logica soltanto in quanto non sono stati sottoposti a giudizio tanti e troppi attori di quel contesto, le cui azioni a monte vennero misteriosamente filtrate e giudicate irrilevanti. Dubitiamo che, una volta portati dentro il processo questi soggetti, i giudici avrebbero potuto tenere l’asticella così bassa. Invece queste incomprensibili esclusioni hanno avuto la conseguenza di permettere ai biechi teoremi del sentimento popolare anti-juventino di varcare senza fatica quella soglia passando così dai bar sport alle aule di tribunale.

Filtri e giudizi, come abbiamo visto, palesemente arbitrari e che all’atto pratico hanno reso innocue e senza reali conseguenze tante conversazioni che ben si sarebbero potute prestare ad un giudizio intransigente, molto di più delle telefonate a Biscardi, faziosi teoremi di ammonizioni preventive, conoscenze di vecchia data di un mondo sostanzialmente chiuso, delazioni, invidie, paranoie, spavalderie, millanterie e tutto il resto del repertorio che ha portato alla condanna in primo grado di chi stava svolgendo, con grande successo, il proprio lavoro di dirigente sportivo in un ambiente quale quello del calcio, che è stato accertato essere “di per sé sospettoso” (pag. 140) e “dilaniato da recriminazioni di vario tipo, spesso affidate alla stampa, e dominato dal sospetto, con conseguenza di reazione scomposta, oltre misura, così dovendo qualificarsi le reciproche spiate” (pag. 102).


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