Tetris

blanc seccoLa musichetta di Kalinka mi aveva accompagnato per tre estati di fila. Davanti al muso della mia immaginazione, maestosi come un sei per tre elettorale insensibile al freddo e alle intemperie, i faccioni di Alessio Secco e Jean-Claude Blanc erano stati il mio più fedele alleato, il propellente migliore grazie al quale staccarmi dal suolo e nel contempo incenerire qualsiasi genere di rompicoglioni mi si parasse davanti.
"Bella squadra, vincete di sicuro".
Potessi rimanere cieco se vi sto raccontando una balla, sentendo quelle parole non solo non battevo ciglio, ma la maggior parte delle volte sguainavo il sorriso dei tempi migliori, quello che chi avevo di fronte aveva dovuto ingoiare come un bigné alla merda per tanti di quei lunedì mattina da perderne il conto, e ribattevo serafico elencando la formazione di chi se n'era andato dopo Calciopoli seguita, la formazione, in rapida sequenza, dai curricula calcistici dei successori della Triade.
Non che siano state gratificanti, quelle tre estati, intendiamoci, ma vedere come i limiti di quelli che consideravo i miei nemici avessero il potere di tappare la bocca di chi avrebbe dovuto amarli alla follia mi dava la forza dell'imprevedibilità, oltre che uno strano senso di, come dire, parziale risarcimento morale. Oramai l'incontro col tifoso delle altre squadre era diventato come una partita a Tetris e, grazie a quei faccioni del sei per tre che mi sostava perennemente davanti al muso, nella mia parte di videogame scendevano solo pezzi a forma di "I".
Ora, non voglio dire che il compito di un Agnelli alla presidenza della Juventus debba essere principalmente quello di risolvere i miei problemi con l'interista di turno, ma insomma, ci siamo capiti.
Se un numero sempre più grande e sempre più simile a una fiumana di juventini aveva auspicato prima, e accolto con entusiasmo poi, la nomina di Andrea Agnelli presidente, non era stato e non è certo per questioni di eredità quanto, piuttosto, e spero una volta di più che ci vogliamo capire, di "ereditarietà". Il compito che ognuno di noi tifosi deve svolgere settimanalmente non è così complesso né remunerato né null'altro che prendere il secchio delle emozioni della domenica e rovesciarlo pari pari sui piedi di chi era allo stadio come noi, o davanti alla tv come noi, o con l'orecchio alla radiolina come noi, ma da un'altra parte. Fino ad inzupparglieli, i piedi.
Non mi aspettavo chissà cosa. Con quello che ho visto, da juventino, prima di Calciopoli e dopo Calciopoli, sarei stato sciocco a farlo. Ma ritrovarmi il 31 agosto di quest'anno, alla fine della prima estate dopo quelle tre, a dover giocare le partite a Tetris con un solo, gigantesco pezzo quadrato grande quanto lo schermo, è una cosa che mi fa incazzare anche più della serie B, e ridere assai meno di quando Cobolli le sparava come manco nei film di Fantozzi.
Se è vero com'è vero che i destini della Fiat e della Juventus sono sempre più destinati a separare le rispettive strade rispetto ad un tempo, non vedo quale ricchezza più grande di quei milioni e milioni e milioni di tifosi sparsi per l'Italia e per il mondo rimanga, agli azionisti di riferimento bianconeri, come serbatoio di un consenso che niente e nessuno, oggi, a maggior ragione neppure le raccapriccianti teorie dell'ex guru del marketing della Multipla a metano Luca De Meo, riuscirebbe a coagulare attorno alla Famiglia Agnelli.
Proprio nel momento in cui sarebbe stato lecito aspettarsi chiarezza di idee, chiarezza dei ruoli e un lento ma perentorio segnale di discontinuità con i pastrocchi del recente passato, ci ritroviamo davanti una squadra rivoltata come un calzino con innesti da far venire i brividi, in un clima accompagnato dai segnali inquietanti di un gioco allo scarica barile tra Marotta e Agnelli che di sicuro, dopo quattro anni così, come risorsa, come clienti o come tifosi, scegliete voi quale titolo sia più calzante per noi, non ci meritiamo.
Se a fine stagione ci saranno i presupposti per poter dare un senso al futuro della Juventus, sarò qui a chiedere scusa. Non di meno mi aspetto, se così non fosse, che qualcuno si prenda la briga di farlo con noi.

Dopotutto, sarebbe l'ora.