Simone Padoin, il giocatore di fatica nell'epoca della sua riproducibilità tecnica

PadoinCampionario - Carico e scarico di calciatori che malgrado tutto non dimenticheremo mai

Come funziona la nostra memoria? Proprio su questo intrigante argomento ho recentemente letto un appassionante saggio di Joshua Foer, fratello minore del più celebre romanziere Jonathan. Il brutto è che praticamente non ricordo più nulla del contenuto del libro.
Ricordo meglio altre cose. Ricordo perfettamente colore e modello degli ultimi dieci costumi da bagno sfoggiati da Nicole Minetti su sfondo di spiaggia bianca. Ricordo diversi curiosi fatti di cronaca comprendenti incidenti sessuali di vario tipo avvenuti in luoghi remoti come lo Zimbabwe o l'isola di Komodo. Ricordo un'infinità di goal sbagliati e altrettanti errori marchiani di portieri borderline. Non ricordo quasi nulla di importante davvero, invece, di quanto appreso negli ultimi anni.
Dicono sia colpa di internet.
Questo rifiuto per le questioni complesse, questa tendenza a semplificare il processo di ricerca, ad accontentarsi di risposte brevi a domande stupide è stato riassunto mirabilmente da un pionieristico articolo del 2008 apparso su The Atlantic dal titolo rivelatore "Is Google Making Us Stupid?" (sebbene il reale contenuto del suddetto articolo ora mi sfugga quasi totalmente e potrebbe effettivamente parlare di tutt'altro). La mia mente, in sostanza, si è abituata a lavorare in maniera troppo semplice: banalmente lascio che il fruitore medio di cazzi altrui mi imponga la sua gerarchia di interessi e valori, non solo quando si tratta di scegliere tra leggere un articolo o un altro, ma addirittura, a me sembra, anche quando si tratta di ricordare.
Proprio di questo contemporaneo disorientamento parlavo giusto qualche settimana fa con un amico, tifoso del Modena, il quale mi spiegava che probabilmente dovrei piantarla lì di leggere in inglese, giusto per sembrare più figo. Già fai una faticaccia, dice, e poi neanche ti ricordi un casso.

Vorrei riprendere questa chiave di lettura più tardi. Nel frattempo, vi ho presentato il mio amico. Lo stesso che sabato sera, vedendolo zompare baldanzoso avantendrìo come un bersagliere in parata, mi ha chiesto: "Ma chi è questo Padoin?"
Risposta mica semplice. Provateci voi a presentare Padoin a uno sconosciuto. Generalmente, un giocatore si definisce in base a criteri piuttosto semplici. Il ruolo, innanzitutto. Ma Padoin dove lo metti sta. Il paragone con un giocatore più celebre. Ma Padoin è confrontabile solo con altri carneadi. Un dettaglio biografico. Tipo l'età. Ma Padoin sta lì nel mezzo. O la squadra di provenienza. Ma, bene o male, quasi tutti i calciatori italiani sono cresciuti nell'Atalanta o nel Vicenza. I connotati fisici, allora. Segni particolari: nessuno. O l'acconciatura. La stessa di altri milioni di tamarri.
Ho risposto perciò che Padoin è "un uomo che assomiglia a un uomo".
Che è una cretinata, prima che ci pensiate troppo.
In qualche modo vera, però, per chi si accontenta. Padoin è davvero lo juventino qualunque, everyplayer, colui che è destinato ad essere dimenticato.
Non è mia intenzione ora fare il solito monumento retorico al milite ignoto, lodare ancora una volta la dignità del corridore sprovvisto di grandi mezzi che fornisce il suo inestimabile contributo alla vittoria grazie all'impegno, alla determinazione, alla pervicace lotta contro i propri limiti etc etc, magari citando Sun Tzu o un poeta crepuscolare, o meglio ancora, un allenatore morto; e questo, nonostante Padoin del soldato della Grande Guerra abbia praticamente tutto: il cognome, la faccia e pure l'andatura impettita da Forrest Gump Alpino; questo, anche, sebbene Padoin sia con tutta evidenza la manifestazione presente di uno spirito che ha attraversato tutta la storia della Juventus sin dal 1897 [Padoin è il classico giocatore, ad esempio, che il Trap avrebbe messo a cinque minuti dalla fine al posto di Platini - lo avremmo conosciuto come (84' Padoin) e così ricordato: Tra Parentesi Ottantaquattro Apostrofo Padoin]. Padoin è nella nostra storia, che si vinca o che si perda. Perché, al di là della succitata retorica, Padoin non è uno di quei giocatori che cambia i destini di una squadra. Semmai, è proprio il contrario: una canna al vento.

Confesso. Durante la finale degli Europei del 2000, ho tifato, in maniera silenziosa ma non per questo meno accanita, per una vittoria della Nazionale francese. Non tanto perché di juventini in campo nell'Italia in pratica non ve ne fossero (beh sì, anche per quello), ma piuttosto perché quella finale stava terminando con un tabellino che era una vera e propria bestemmia in chiesa.
Uno a zero, goal di Delvecchio.
Una cosa che non può esistere. Io, che da turbo-occidentale pratico da anni il culto dei posteri, avvertivo una vera e propria vampa di vergogna nel mio petto. Avrò avuto neanche 20 anni, ma già mi figuravo come diavolo avrei dovuto spiegare ai miei figli che le finali non le decidono gli eroi e i campioni, ma i giocatori qualunque, passati di lì per caso, pure avessero le orecchie a sventola e il profilo equino. Ovverosia che nel calcio, come in qualsiasi altra cosa, a decidere ogni cosa è il caso. La combinazione casuale di elementi casuali. Il trionfo dell'entropia. Quel giorno, nel rettangolo dove tutto ha senso, il disordine reclamava imperioso la sua parte. Presagio, infatti, di un decennio difficile.
Come educare i tuoi figli in un'epoca in cui il caos regna sovrano? Forse meglio non metterli al mondo, mi dicevo, proprio come un padoìn qualsiasi. Non fosse stato per Sylvain Wiltord e David Trezeguet, insomma, la mia vita probabilmente sarebbe cambiata. Cosa che, peraltro avvenne quattro anni dopo, quando un'intera squadra di gente passata lì per caso conquistò la vittoria del torneo, consegnando il mio corpo e la mia anima al nichilismo.

Muovendo quindi dal presupposto fondante questa rubrica, ossia che la vita è una metafora del calcio, ricongiungiamo i pezzi per il finale, come si faceva nei film di Tarantino.
Da un lato osserviamo che il calcio, come ben sapete, è sempre più infastidito da quelle interferenze e distrazioni di cui sopra: i movioloni, le fidanzate, le esultanze, le capigliature. Quelle cose per cui alla fine ti ricordi calciatori che dovresti dimenticare come Turone, Coco, Pasquale Luiso o Valderrama. Il calcio è pieno di queste cose, che un senso non ce l'hanno, ma sembrano tutto sommato inoffensive. La locura. La nostra attenzione è catturata da personaggi insulsi e immeritevoli, spesso sprovvisti dei requisiti minimi di dignità, e da vicende assolutamente vuote di significato. Una narrazione da cui una brava persona come Padoin, onesto lavoratore, è destinato a essere escluso.
Dall'altro, desideriamo dal calcio, come da quasi ogni altra cosa, risposte brevi a domande stupide. Risposte consolatorie, analisi rassicuranti che ci raccontino che il nostro mondo non cambia, che certe cose vanno allo stesso modo da sempre, che i brocchi sono brocchi, i ladri sono ladri, i campioni decidono le finali.
Ecco perché se un Padoin impazzisce, si ribella, sceglie la propria libertà - un vero e proprio topos letterario - un intero mondo è destinato a crollare. Quando Padoin esegue quel pregevole dribbling stretto all'interno dell'area al Dall'Ara di Bologna, i ghiacci polari si fondono. Azzeccasse il sinistro a giro sul palo opposto, si sposterebbe l'asse terrestre. Ecco il paradosso, quindi: noi non vogliamo che Padoin faccia la storia. Ne siamo quasi spaventati. Noi chiediamo a Padoin di essere un giocatore senza volto e senza nome, nel turnover della Storia. Perché questo è il modo di servire la Juventus, per uno come lui.

Tutto ciò ha un senso, glielo diamo noi, ma non è giusto.
E allora ve lo immaginate Padoin segnare a Wembley in finale, magari giocando al posto di Marchisio? Per me, una Champions League val bene l'Apocalisse.


Puntate precedenti:
1 - Mirko Vucinic, simbolo di pace
2 - Paul Pogba e il romanzo di formazione

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