Andrea Agnelli, voce che grida nel deserto

AgnelliA qualcuno Andrea Agnelli potrà sembrare una sorta di Cassandra, un profeta inascoltato di sventure: ma sì, lasciamolo parlare, tanto arrivano prima i Maya. In realtà le parole di Agnelli, che non datano certo dall'assemblea di venerdì, non sono frutto di un dono di Apollo, ma di una lucida analisi della realtà del calcio, non solo italiano. Il primo grave monito Andrea Agnelli l'aveva lanciato a novembre, in risposta secca all'invettiva petrucciana sul doping legale: le parole del presidente bianconero contenevano già molti degli spunti sviluppati ieri, incluso quello della giustizia sportiva che tanto è andato di traverso a Ruggiero Palombo, per il quale il fatto che un sistema che fa girare decine di milioni di euro, con club quotati in Borsa, sia governato con i regolamenti sul cravattino del circolo della caccia sembra cosa del tutto congrua.
E il numero uno della Juventus tocca questi tasti tutte le volte che gliene capita l'occasione, consapevole che sensibilizzare palazzi, fortini e stamberghe su tali criticità sia la sola difesa da opporre alla valanga che sta per travolgere il nostro calcio, scandalo dopo scandalo, incompetenza dopo incompetenza, prescrizione dopo prescrizione.

Ma è stato un clamans in deserto: chi lo vorrà mai ascoltare? Un Galliani ancora con l'occhio fisso sul cellulare con impresso il goal di Muntari, lui che di notte sogna ancora un inarrivabile Carlitos, poi si sveglia sudato con l'incubo di ritrovare Pato in infermeria? Un'Inter che si abbarbica tenacemente ad uno scudo di cartone, continuando a ignorare che le coppe le vendono anche nei negozi, ne puoi comprare quante vuoi ma se non le hai vinte sul campo non valgono nulla; e che ripete all'infinito il ritornello della prescrizione, negando di essere stata lei a far monitorare De Santis, fu la Telecom, che forse voleva capire perché avesse pagato qualche bolletta in ritardo. Una Fiorentina ossessionata dal ricordo del perduto amore Berbatov e che mischia affari e calcio, mentre la Fiesole conta i defunti bianconeri? Una Roma che si dibatte tra americani e banche, mentre il suo mentore Zeman punzecchia continuamente le Juve con battute astiose? Un Napoli che, ossessionato dai fantasmi di Pechino, prima getta manciate di sospetti su Prandelli e poi spedisce gli ispettori federali alla ricerca di fantomatici tunnel all'interno dello Juventus Stadium? Una Lazio guidata dal battagliero e tenace Lotito (il quale peraltro si è dichiarato d'accordo con Agnelli) che si attacca alla speranza che l'eterno dimissionario Beretta rimanga al suo posto ad apostrofarlo con l'amichevole 'Dimmi Claudio'? Tutto il resto del plotone che vive su un fatalistico 'Io speriamo che me la cavo'?

A livello di istituzioni il pianto è totale. Abete, un po' preoccupato dell'ombra di Tavecchio che si profila alle sue spalle nella corsa al rinnovo della presidenza della Federazione, ribadisce che rispetto al declino del calcio prospettato da Agnelli la Figc è innocente, comunque al limite incompetente: c'entrano i club il cui "volano di sviluppo ha segnato il passo rispetto ai club di altri Paesi a livello europeo", e non se ne chiede le ragioni profonde, che nascono da un governo del calcio che definire inadeguato è essere buonisti; c'entra la Lega, perché la riflessione sulla realtà del sistema professionistico, proposta da Agnelli, "è collegata ad una volontà che deve emergere all'interno delle società della Lega". Ma la Figc, che gestisce questo mondo variegato e complesso come fosse il solito circolino della caccia, non c'entra. Una Figc che controlla le nomine della 'giustizia' sportiva e, tramite questa, sotterra uno scandalo dietro l'altro ponendo sulle rispettive tombe una lapide con l'emblema del mostro di turno, a futura memoria: fu il Moggi di Calciopoli, è il Conte di Scommessopoli. Grazie a ciò, tutto il sommerso non esce: non esce che il calcio italiano, ad esempio, era avviluppato, a tutti i suoi livelli, da un intreccio di scommesse con l'intervento della malavita internazionale, che tantissimi giocatori si sono davvero venduti le partite, che c'è una pulizia profonda da fare: c'è Conte, ora (anche se non all'epoca dei fatti) allenatore di quella Juve che l'Italia antijuventina detesta, e così mettiamo d'accordo tutti.
Questa è l'immagine che esportiamo: e ne sa ben qualcosa Agnelli, presidente di una squadra che deve girare per gli stadi della Champions League con il suo allenatore confinato in piccionaia; gli stranieri ci chiedono perché e la risposta giusta 'perché non poteva non sapere' li lascia allibiti e sconcertati, prima di farli esplodere in una fragorosa risata, che fotografa perfettamente il paese dei cachi che è l'Italia calcistica; e per questo motivo Andrea, recentemente, a Londra, al convegno 'Leaders in Football', ha esportato la questione della 'giustizia' sportiva italiana, mettendone a nudo le magagne; che si sappia.

Poi c'è Petrucci, l'innamorato dell'etica: davanti al discorso di Agnelli il quale, in reazione al suo sgradevole e polemico attacco sul doping legale, aveva risposto con la proposta di metter seriamente mano ad un tavolo delle riforme che desse il giusto respiro ad un mondo che è "una delle prime dieci industrie italiane", come aveva risposto? Con un risibile e strampalato tavolo della pace, che non poteva portare a nessuna pace e tanto meno poteva promuovere le riforme; era solo un ennesimo esempio di come agisce la 'giustizia' domestica quando ha dovuto ridursi a dichiarare la sua incompetenza: mettiamoci seduti e contrattiamo; e senza che il padrone di casa avesse nemmeno l'indispensabile autorevolezza sugli ospiti riottosi. Analogo il sistema usato nel calcioscommesse: tu dai un nome (possibilmente 'giusto') a me, io tolgo qualche anno a te. E cosa è uscito da questo mercanteggiare e cosa ancora ne uscirà è e sarà sotto gli occhi di tutti. La sporcizia viene solo scopata in un angolo, pronta a riciclarsi, e qualche pepita, scambiata per un volgare sasso, viene gettata via.
E quel che resta del giornalismo certo non aiuta. Come sappiamo.

Questo è il contesto in cui Andrea Agnelli si trova a guidare la Juve, l'unica società che, costruendo il suo futuro sulle fondamenta gettate da un passato virtuoso (sia sul piano amministrativo che etico) non essendosi mai avvalsa di artifici quali la legge spalmadebiti, la vendita del marchio e le plusvalenze fittizie, non ha aspettato una legge sugli stadi, l'unica che lo stadio se l'è costruito da sé e intorno vi ha costruito un progetto; l'unica società che, pur fortemente depauperata da Calciopoli sia sul piano strettamente finanziario sia su quello delle risorse umane a tutti i livelli, ha saputo, con le sole forze della gente della Juve, rialzarsi, tornare al successo e ora permettersi di dire: noi non vendiamo i campioni, noi li compriamo. E' un giovane presidente che sa opporsi e lottare contro le Istituzioni per riavere il maltolto (a livello di titoli e di danni economici), ma che nel contempo è fortemente motivato a collaborare con esso per i problemi del mondo del calcio, perché non può salvarsi da solo: quel mondo perrupato rischia di sepperllirlo sotto le sue macerie. "I tempi stavano cambiando e non hanno smesso", la frase di Bob Dylan citata da Agnelli è un monito: fuori d'Italia corrono, da tempo; il nostro calcio è rimasto indietro, precipita nel ranking e non solo.

Ecco perché quella di Andrea non può rimanere una vox clamantis in deserto. Perché non è più tempo di io speriamo che me la cavo. Bisogna, tutti insieme, rimboccarsi i cervelli e cambiare profondamente, ristrutturare in lungo e in largo questo edificio fatiscente, con personale nuovo, capace e soprattutto competente.

 

 

twitter: @carmenvanetti1