Lettera aperta ad Antonio Conte

Caro Antonio,
questa da te proprio non me l'aspettavo. Le tue dimissioni da allenatore della Juventus che più ho amato in vent'anni di tifo bianconero mi sono piombate addosso come il classico fulmine a ciel sereno. E dire che ci sono rimasto male, malissimo, non è che uno scialbo eufemismo.
Ho appreso della tua sconcertante decisione solo in tarda notte, lo scorso 15 luglio. Mi trovavo a Praga per trascorrere qualche giorno di vacanza. Entro in stanza dopo una bella serata passata a gozzovigliare in piazza Venceslao, mi metto comodo, accedo a internet tramite il Wi-Fi dell'hotel e, come ogni sera, la prima cosa che scrivo sulla barra di Google è la parola Juve. Speravo in qualche buona nuova di mercato, e invece eccoti lì: Antonio Conte lascia la Juve per divergenze con la società. C'è mancato poco che non scaraventassi lo smartphone fuori dalla finestra!
Ma come?, mi domando. L'allenatore di tre anni di trionfi che se ne va al secondo (sottolineo: secondo) giorno di raduno dopo la stagione dei 102 punti, record assoluto di tutti i tempi in serie A: roba da matti, da non credere, mi viene da pensare. Eppure è tutto vero: con un laconico video pubblicato sul sito della società, mister Conte ha annunciato le sue dimissioni, di comune accordo con i vertici, così scrivono.
Ora, caro Antonio – tu ovviamente non mi conosci, e mai ci incontreremo: ma mi permetto di parlarti come ad un amico e, immagino, a nome di tanti appassionati che, come me, vivono queste ore con profonda amarezza pallonara –, vorrei raccontarti una storia. Ed è – se mi consenti – proprio la tua storia. 
Quando arrivasti alla Juve tre anni fa, eri solo una promessa. Avevi disputato alcune ottime stagioni in serie B, ma – ammettilo – come allenatore non eri ancora nessuno. Eppure eri già pressoché intoccabile: eri stato capitano della mitica Juve di Lippi e incarnavi la juventinità perché – come più volte hai affermato – hai sempre avuto il DNA bianconero. Tra te e noi tifosi fu amore a prima vista. Da ogni tua parola promanava una carica pazzesca: in breve (parola di Agnelli), diventasti il nostro condottiero. Non le mandavi a dire a nessuno, eri gobbo fino al midollo e la tua squadra giocava da Dio. Per i miei occhi di tifoso, il più bel calcio che abbia mai visto. 
Quello che sto cercando di dirti è che la tua storia in bianconero – dopo anni di delusioni, con una società che pareva sempre più impacciata e che aveva subito Calciopoli senza difendersi, accettando la retrocessione con sconcertante nonchalance – fu, sin dai primi giorni, una favola. Vederti sbraitare e mulinare le braccia come un ossesso ad ogni pallone perso era per me una sensazione impagabile. Con pochi, semplici accorgimenti – i tuoi famosi testa, cuore e gambe – avevi compiuto il miracolo: trasformare la frustrazione in spirito di rivalsa e, soprattutto, la percezione della nostra diversità in orgoglio. La Juve, con te al comando – perché eri tu, solo tu il simbolo della rinascita, altro che Agnelli, Marotta, Paratici, gli Elkann e chi più ne ha più ne metta – era finalmente tornata ad essere una squadra con gli attributi, che non si faceva più mettere i piedi in testa. Così io la percepivo, vedendoti ringhiare in conferenza stampa ogni volta che si adombravano – come sempre, ahimè, nel triste mondo del parolaio calcio italiano – sospetti sulle nostre vittorie. Erano finiti i tempi delle provocazioni, delle prese in giro, della Juve "simpatica": tutti gli avversari ti detestavano perché eri gobbo, e per giunta un gobbo che non perdeva mai. E per questo io ti consideravo una specie di eroe.
Caro Antonio, voglio essere chiaro con te. I risultati che hai portato ti hanno reso grande: ma tra noi e te la classifica, le vittorie (e le delusioni europee) non erano mica la cosa più importante. Si parlava di Conte alla Ferguson, di te che ti sentivi a casa, di un pubblico che finalmente aveva trovato coraggio dopo il dramma sportivo di Calciopoli. Tu donasti il tuo vigore, la tua energia, la tua sfrontatezza, la tua ambizione ad un mondo che aveva visto spazzare via da una sentenza di tribunale una squadra tra le più forti mai scese in campo in Italia; tu, solo tu, davi l'impressione di sferzare una società diventata apatica, imbranata, pasticciona (che prima accetta, rassegnata, la B; poi fa causa alla Federazione; poi... visto cos'è successo con te non so più cosa aspettarmi); tu, mister, eri il solo juventino vero approdato a Torino dopo la maledetta estate del 2006. 
E che juventino! Prima campione da giocatore, poi fenomeno della panca. Uno scudetto da imbattuto, con una squadra che non era da primo posto e contro un Milan attrezzatissimo (con un certo Ibrahimovic che, a parte quell'anno, non perde un campionato da due lustri a questa parte); poi di nuovo un tricolore, in scioltezza direi; e infine lo scudetto dei record, stratosferico. Tre campionati consecutivi, come alla Juve non succedeva dai tempi dell'homo habilis. Tre vittorie che val-gono, per me, più di qualsiasi trionfo del passato: perché, con te, avevamo ritrovato lo spirito combattivo, ci sentivamo tutti un po' sfrontati e baldanzosi come chi si è liberato, dopo tanto pati-re, di un peso insopportabile.
Sai cosa significa, caro Antonio, amare una squadra di calcio? Io credo che, in fondo, significhi aver voglia di condividere una passione che unisce le persone. Ritrovarsi al bar con gli amici e riconoscersi in un credo comune – anche se frivolo, come in effetti è il pallone – è la cosa più bella per chi vive lo sport dal di fuori. È per questo che ci si scalda allo stadio, o davanti alla tv: perché, dopo una gioia o una delusione, si sta tutti uniti per assaporare lunghi attimi di emozioni collettive. Una squadra è un punto di aggregazione, un valido motivo per stare insieme a bere una birra, un'occasione per sentirsi parte di qualcosa. Ecco, caro Antonio, qual è il punto: tu non eri un semplice allenatore. Tu eri uno di noi catapultato in panchina. Quando ti agitavi – mai ti abbiamo visto seduto nell'area tecnica – eri come l'oste che spilla male la mia Pilsner perché distratto dalla Juve che attacca; eri come l'amico che compie religiosamente assurdi riti scaramantici; eri come quello che, impossibilitato a seguire la gara, ti bombarda di sms pur sapendo che li leggerai solo dopo il novantesimo. 
Capisci, caro Antonio, perché la tua decisione di andartene è così difficile da digerire? Ci avevi illuso di amarci, e noi ti abbiamo creduto. Ora però ci hai destato da un sonno ricco di sogni con una secchiata di acqua fredda. Tu facevi il tuo lavoro, da professionista eccellente quale sei. Ma era solo un lavoro, nulla più. Quando la Juve ti è diventata stretta, l'hai abbandonata, come un qualunque manager che decide di cambiare aria. Non importa quali siano le motivazioni: quelle vere, le conosci solo tu. Il mercato scadente (ma la squadra attuale è poi così debole come lasci intendere?), la stanchezza, la pressione (consentimi di dirtelo: sono altri i dipendenti di casa Agnelli che possono dirsi stanchi o sotto pressione): non sono ragioni valide per rompere – come dice il nostro inno – la «storia di un grande amore». Andandotene, hai scelto di tornare ad essere niente più di un bravo allenatore. Ovunque andrai, sarai solo un tecnico. Ma se, come hai più volte ribadito, sei bianconero nel DNA, ricordati che i tuoi successi futuri non avranno più lo stesso sapore di quelli vissuti all'ombra della Mole. A meno che tu non ci abbia mentito anche su questo. 
Che dirti, in conclusione, caro Antonio. La tua era una Juve più Juve di tutte le altre: era la Juve di Conte. È stata dura dirle addio.